Come Michela Giraud, comica e creativa, ho scoperto che ridere non solo allieta, ma libera. Dalla mia prima risata sul palco alla ribalta su Netflix, condivido con voi come la comicità è diventata la mia ribellione e salvezza.

Battuta sempre pronta, a volte sfacciata. Genuina, fino a essere imprevedibile. La comica più amata, Michela Giraud, ci spiazza anche in questa intervista: «Mi viene facile perché sono una ribelle. Se avessi dovuto seguire le regole non sarei qui»

Michela Giraud è una trottola. La raggiungo in videochiamata durante le prove di CCN-Comedy Central News, che parte il 14 maggio e di cui è per la seconda volta di fila conduttrice. È reduce dal successo di LOL-Chi ride è fuori, il programma comico di Prime Video, dove è diventato un cult il suo tormentone del Mignottone pazzo (ovvero: le istruzioni su come comportarsi sui social se lui ti lascia).

Ha appena scritto un racconto per Manifesto (Fandango), un volume “generazionale” i cui autori sono tutti nati tra il 1985 e il 1999, in cui narra delle tribolazioni dei 30enni di oggi. E ha girato un video di denuncia sul tema delle spose bambine per Action Aid e una serie di divertentissime clip web per il brand di moda Persona by Marina Rinaldi.

Ho dimenticato qualcosa? Sicuramente le sue chiacchierate notturne su Instagram, seguitissime, e le varie comparsate in tv, dove ogni volta fa strage di risate, per non parlare del ruolo in Maschile singolare, il film di Matteo Pilati e Alessandro Guida che arriva il 4 giugno, sempre su Prime Video. Battuta pronta, spesso sfacciata, irresistibile nella sua genuinità (che mette in agitazione la sua agente e la sua pr!). Non posso che partire dalla domanda con la D maiuscola.

Quando hai scoperto di saper far ridere?

«In prima elementare. Ero una discola. Sai quei bambini che non si sentono abbastanza notati e quindi fanno una gran caciara? Con le battute, le imitazioni e le citazioni dei cartoni facevo ridere i compagnucci e la mia migliore amica. Ero iperattiva. La maestra Tartaglia diceva sempre: “Michela Giraud è peggio dei maschi”» (la imita con accento napoletano, ndr).

Ma far ridere che cosa significa per te?

«È una salvezza, un’àncora, una nuvola che ti fa librare quando la realtà è grigia e pesante. È un’evasione, una liberazione, una catarsi. Che non vuol dire prendere le cose meno sul serio o svuotarle di importanza, ma cogliere un aspetto che può essere salvifico (passa la sua pr, alza il pollice e Michela scoppia a ridere, ndr). Lei e la mia agente mi prendono in giro quando dico delle cose da donna intelligente quale sono!».

Sul palco scherzi spesso sui tuoi punti deboli e inviti gli altri a fare altrettanto. Saper ridere di sé e dei propri difetti è terapeutico e aiuta a neutralizzare le persone che ti criticano?

«Il problema è proprio pensare che ci siano sempre queste altre persone… Che palle! Alla fine è terapeutico dire le cose a se stessi: è il primo passo per accettarle e metabolizzarle. E l’autoironia è una grande arma. Metti che ora io ti dicessi che sono una geniale matematica e porto la 40. Tu risponderesti: “Miche’, guarda che non è proprio così”. E io ci soffrirei. Se invece sono io la prima a dire: “Vabbè, io c’ho la 46 e che me frega. E la matematica l’ho lasciata, è un grande rimpianto della mia vita”. Secondo me è già un grande passo in avanti, non credi?».


«È stupido distinguere tra comicità maschile e femminile. l’umorismo è uno, per me: una linea retta che a un certo punto prende una direzione inaspettata. E ti sorprende»


L’umorismo femminile è diverso da quello maschile?

«No, non c’è alcuna differenza. Chi fa questa distinzione vuole porre un accento sulle diversità, effettuare una polarizzazione che è la cosa più lontana dall’intelligenza. Per me l’umorismo è uno: è una linea retta che a un certo punto si interrompe e prende una strada inaspettata e ti spiazza. I temi possono essere differenti, perché un uomo non potrà mai parlare dei dolori del ciclo e io non potrò mai parlare di quanto è difficile andare a fare una visita alla prostata. Però il principio del “ti porto da una parte e poi ti svelo che sto andando da un’altra” è una prerogativa della comicità».

Quanto tempo impieghi a preparare uno spettacolo, quanto lavoro c’è dietro una battuta?

«Sono molto felice che tu mi faccia questa domanda, perché ultimamente mi “interrogano” sempre su temi femminili e mai sul mio mestiere. Dipende: ci sono volte in cui è una cosa estemporanea. Però per fare Michela Giraud e altri animali, il mio spettacolo del 2019 che ha girato di più nei teatri italiani, mi sono chiusa 10 giorni dentro casa. Ho scritto a getto le cose che mi venivano. Dopo le ho prese e le ho raffinate. Il lavoro che c’è dietro uno show, se fatto bene, è enorme. Poi però entra in gioco il contatto col pubblico, perché il parlato è altra cosa dallo scritto. E quando sei lì, di fronte alla platea, capisci meglio cosa vuoi fare. Ci sono due tipi di comici: uno è il “cecchino”, come Saverio Raimondo che non si alza dal tavolo finché non ha trovato la chiusa perfetta. Io sono invece una “mitraglia”: su 70 cose che mi escono di getto, va bene se ne raccolgo 30».

Però hai messo sul piatto la questione della femminilità. Anche nel racconto che hai appena scritto per il volume Manifesto te la prendi con le etichette: femminista, volgare…

«Sono cose che mi innervosiscono molto. L’etichetta è comoda per gli altri, li rassicura perché ti posiziona all’interno di un recinto. E se tu metti il piede fuori da questo recinto, automaticamente vieni attaccata».

Ma quindi tu come sei?

«Tendo sempre a essere molto libera, ad avere una visione a 360 gradi, ma voglio anche il diritto di sbagliare. Fra le etichette che detesto di più c’è quella di “curvy”. La trovo una parola di una grande ipocrisia perché suppone che una ragazza curvy si debba sentire bella nonostante tutto. Qual è la concessione che viene fatta, e da chi? C’è sempre qualcuno che dall’alto stabilisce una regola. Io questo qualcuno non lo vedo, non lo rispetto e non lo rispetterò mai. Se avessi dovuto seguire le regole non sarei qui a parlare con te».

Rompere le regole però non è semplice. Tu quali hai infranto?

«A me riesce facile perché vengo da un contesto borghese abbastanza restrittivo: papà è un ammiraglio e mamma è una biologa ospedaliera. Una famiglia dove bisognava vestirsi in un certo modo, frequentare certi posti, essere sempre “in punta di forchetta”. Secondo loro avrei dovuto avere un posto fisso, continuare in ambito accademico dopo la laurea in storia dell’arte, sposarmi. Certo se Riccardo (Contumaccio, con cui Michela sta da 1 anno, ndr) me lo chiedesse… Però anche il matrimonio è il riflesso di una mentalità che ci hanno instillato».

Ribelle e rivoluzionaria.

«E chi lo sa… Rivoluzionario era Che Guevara, io non so se sono all’altezza del concetto storico di rivoluzionario, di sicuro le mie armi sono le parole».

Le parole possono essere baci o coltelli.

«Sì, però quello che a me fa un po’ impressione è che la comicità sia vissuta con estrema serietà qui in Italia. Cioè, la gente si incazza per certe battute. Alla fine, ragazzi, stiamo facendo comicità. Non capisco perché talvolta uno prenda le parole di un comico come se fosse un ministro e lo attacchi».


«Odio l’etichetta “curvy”, perché suppone che una ragazza si debba sentire bella per una concessione fatta dall’alto»


Tu sei attaccata anche perché sei donna e giovane?

«Non credo dipenda solo dal genere, ma forse dall’età. Nella comicità molti si sentono di poter dire: “Io l’avrei fatto meglio”».

Torni su Comedy Central con CCN e Il salotto con Michela Giraud. Cosa cambia rispetto alla stagione scorsa?

«Sono cambiata io. Ora so chi sono e cosa sto facendo. Per me l’anno scorso era la prima volta come conduttrice e quest’anno, nonostante sia tutto scritto in una maniera quasi maniacale perché io non vado in onda senza scrivere, mi sento più libera di fare un po’ di jazz su quello che è stato deciso. Mi prendo un po’ più di confidenza con gli ospiti. Come con Roberto Saviano, nella prima puntata: faccio battute su di lui e sulla scorta, il che non è scontato».

Ultimamente hai fatto anche degli sketch online per Persona by Marina Rinaldi. Cosa provi a essere una testimonial di moda?

«Sono orgogliosissima. Hanno sposato me come artista e come persona, lasciandomi la massima libertà. E poi ora mi vesto molto bene, ho una persona che pensa a cosa devo indossare, non ho gli abiti sgualciti come prima. La mia vita è svoltata, Isabe’».

login

NON PERDERTI NULLA

Iscriviti alla newsletter e oltre a info quello che sto facendo potrai vedere in esclusiva il mio ultimo spettacolo integrale al Brancaccio con un codice unico per te!